domenica 9 ottobre 2016

Bachelite ovvero sogno di una notte in camera presso via delle Industrie

Chiudo la porta. 
Non devo girare la chiave nella toppa, sono usciti tutti nella loro lotta contro il tempo. In casa io e il nonno che non entra senza bussare; 
poi è sordo e l'apparecchio serve a poco.
Ho appena riagganciato il telefono di bachelite: chissà se i miei si decideranno a comprare un cordless: per una telefonata è più intimo l’apparecchio del bar! 
Gaia mi ha confidato che è cotta di Ugo, virtuoso fighetto, maledetto polistrumentista. Resto qualche secondo con la schiena sull’uscio, ripetendo le sue parole. 
Tiro fuori l’aria dai polmoni e decido che ho bisogno di sfogarmi. 
Faccio buio con la tapparella, nascondendomi dagli occhi della raffineria. 
Accendo pc e lampada: la luce artificiale da vita ai colori della mia stanza. 
Apro l’armadio, lo stesso da quindici anni, come dimostrano le figurine di Maradona. Dietro le felpe nascondo la camicia e i pantaloni di pelle. 
Metto anche la fascia tra i capelli ricci. 
Mi rivolgo ai poster dei miti del rock, miei complici: 
“Jimi, abbiamo solo mezzo secolo che ci divide.”  
Poi penso:
“E miliardi di note che non suonerò mai come te.” 
Janis ammicca, Mick e le altre pietre rotolanti m’incitano ed Eric sorride.
Con un calcio faccio sparire il fodero sotto il letto, tra mille altre cose che un giorno sistemerò. 
É un rituale, accarezzo le corde e imbriglio la chitarra.
“Tu preferisci Ugo? O resterai mia anche se suono uno schifo?” 
Le cuffie avvolgenti mi attendono. 
I miei otto metri quadrati di stanza accolgono il più grande chitarrista di sempre. 
O solo il più grande strimpellatore del condominio! Chiudo gli occhi e nel camerino mentale tra il rimmel delle groupie, non c'è la mia musa. Si perderà le mie struggenti note. 
Li riapro, il soffitto rifulge le stelle fluorescenti, sembra di essere sotto il cielo dell’isola di Wight. 
Scompare il cemento, gli astri plastificati diventano reali. Via delle Industrie come Woodstock. 
Guardo la foto sul comodino, tra il libro di Fante e quello di storia: è seduta sul letto con la felpa che le ho portato da Dublino. 
“Sei importante per me, non potrei fare a meno del mio migliore amico”.
Amico un cazzo! Ti amo. Sentimento bastardo.  
La folla è in delirio, sarà un evento storico. Voglio sotto il palco le mie adorate fan. Clicco e lancio la base di Little Wing. 
Spalle alla porta, sguardo rivolto all'orizzonte finito della finestra chiusa, mente proiettata a cavallo dell'atlantico. O  solo sotto casa sua. 
Nonostante il suono sia diretto alle orecchie, sento le vibrazioni che mi attraversano: il palazzo trema al passaggio dei tir che scarrozzano indisturbati per strada. 
Suono ad occhi aperti, non sono bravo, guardo il manico, cerco sicurezza. Tra tasti e corde incrocio ombre tribali sul muro e intravedo ancora la foto. Potrei spingerla a faccia in giù, ci ripenso. La cerco tra le note: non accade e stecco una battuta.
Il pezzo entra nel vivo. Mi agito, inciampo nel cavo del modem, sbatto contro uno spigolo: è un movimento ripetuto, ci sarà il momento del dolore, domani. 
Sono in estasi con la mia Stratocaster coreana, è l’assolo finale. Sudo come un disperato, sfinito, sfogato e contento.
Senza voltarmi schiaccio il pedale della distorsione che zittisce la bestia. Nelle cuffie un fruscio soave mi graffia la schiena. 
Esco dalla spettacolare apnea; con devozione depongo lo  strumento, ho bisogno d’aria. Nel rialzare la tapparella un riflesso mi fulmina. La porta è aperta.
“Mio Dio”.
Mi giro rosso in viso, non per la prestazione.
“Che ci fai qui?” 

Riesco a dire solo questo quando vedo nella penombra il suo stronzo sorriso incastonato nella sua immensa bellezza.

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